Sono passati oramai oltre 13 anni da quando, nel 1996, l’ecologo William Rees della British Columbia University di Vancouver (Canada) e successivamente uno dei suoi allievi, Mathis Wackernagel, oggi direttore dell’Ecological Footprint Network, coniarono un metodo, denominato impronta ecologica, capace di rapportare rilevamenti oggettivi sullo stile di vita delle persone e delle comunità basati sui loro consumi alla disponibilità di superfici, terrestri e acquatiche, necessarie a garantirli, per capirne meglio la tanto osannata ma spesso poco ricercata e praticata sostenibilità. Tale metodo, pur con i suoi limiti di stima a livello di dettaglio (non viene per esempio considerato l’’inquinamento, ad eccezione delle emissioni di CO2.), è forte della sua immediatezza ed efficacia nel misurare l’impatto dell’uomo sugli ecosistemi ed ha avuto in questi anni una diffusione trasversale sulla comunità, non rimanendo confinata all’ambito degli addetti ai lavori, ma affermandosi nei vari contesti, non ultimo quello scolastico-didattico, rendendo possibile un’opera di sensibilizzazione tra le nuove generazioni e divenendo di fatto uno degli strumenti più utilizzati nell’ambito degli studi sulla sostenibilità. Il bilancio ecologico (locale, regionale, globale) viene determinato calcolando la quantità di suolo e acqua necessaria per sostentare un carico umano definito, cioè per reggere l’impronta ecologica che una determinata popolazione imprime sulla biosfera attraverso il proprio stile di vita. L’impronta ecologica permette di visualizzare con grande immediatezza cosa significa consumare troppo, superando la quota di risorse cui si avrebbe diritto. Infatti, confrontando l’impronta di un individuo (o regione, o stato) con la quantità di terra disponibile pro-capite (cioè il rapporto tra superficie totale e popolazione mondiale) si può capire se il livello di consumi del campione è sostenibile o meno.
Per calcolare l’impronta ecologica relativa ad un insieme di consumi si mette in relazione la quantità di ogni bene consumato (es. grano, riso, mais, cereali, carni, frutta, verdura, radici e tuberi, legumi, ecc.) con una costante di rendimento espressa in kg/ha (chilogrammi per ettaro), ottenendo così una superficie.
Acquisire il concetto di limite nei confronti delle risorse del nostro pianeta rappresenta sicuramente il punto di partenza e l’acquisizione di una consapevolezza, per individuare ed intraprendere azioni di risanamento, tanto a livello politico quanto nella propria dimensione personale. Secondo i calcoli più recenti l’impronta ecologica dell’umanità è di 2,2 ettari globali pro capite, mentre quella dell’Italia è di 4,2 ettari.
Osservando i dati relativi all’impronta ecologica dei vari paesi del globo saltano subito agli occhi le varie facce del nostro pianeta, con paesi, come gli Stati Uniti, sulla soglia dei 10 ha/procapite con un incremento di circa il 150% rispetto alla superficie disponibile, passando dall’Italia, che con i suoi oltre 4 ha/procapite superata di poco la propria superficie disponibile di 3,8 ha/procapite, per arrivare a paesi come il Bangladesh, o molti paesi del Centro-Africa, ancora ben al di sotto di 1 ha/procapite. Si tratta di un tema di grandissima attualità, nel quale si sono inseriti i maggiori economisti mondiali, tra i quali, uno in particolare, Herman Daly, Professore di economia presso l’Università del Mariland, che tra i primi ha criticato il concetto di crescita economica.
La posizione di Daly parte innanzitutto dalla contestazione della mistificazione che viene fatta fra i due termini di “crescita” e di “sviluppo”, troppo spesso confusi ed usati come sinonimi, laddove invece con la crescita si dovrebbe andare ad indicare la dimensione quantitativa, mentre lo sviluppo dovrebbe di contro esaltare la componente qualitativa, che dovrebbe essere proprio quella ad avere maggior peso nelle scelte internazionali, dopo gli ultimi decenni di industrializzazione e di depauperamento indiscriminato del nostro pianeta. In un tale contesto, infatti, risulta davvero assurdo ed oramai inconsistente continuare a misurare la crescita e lo stato di benessere dei popoli e delle nazioni solo e soltanto valutando la componente quantitativa costituito dal PIL (prodotto Interno Lordo) e cominciare invece ad introdurre componenti che afferiscano anche alla sfera qualitativa della vita. Uno degli approcci più interessanti di superamento del PIL come unico indicatore dello sviluppo è rappresentato dal HDI (indice di sviluppo umano). Si tratta di un indicatore utilizzato per paragonare tra loro i diversi paesi per mezzo di tre variabili: aspettativa di vita, tasso di scolarizzazione e ricchezza (PIL reale). Solo indicatori composti come questo possono aiutarci a valutare la sostenibilità della vita in uno Stato, una regione o una città, dal momento che sono in grado di interpretare lo stato dell’ambiente e le pressioni delle attività umane e permettono la rappresentazione sintetica dei problemi indagati, senza perderne il contenuto informativo. Un tale approccio assumerebbe veramente un valore non solo analitico ma anche sinottico, raccogliendo informazioni finalizzate a permettere una valutazione, proprio come la temperatura corporea è un indicatore dello stato di salute dell’organismo umano. Gli indicatori dovrebbero essere semplici, credibili, sintetici.
Su questo attualissimo argomento in tema si svolgerà, nel corso del 2010, “Impronta EcoLogica”, la prima fiera della sostenibilità dedicata a chi desidera vivere bene in modo responsabile. Si tratta di una manifestazione multitarget itinerante che, nel periodo compreso tra marzo e maggio 2010, toccherà 3 differenti città italiane, Brescia, Carrara e Bologna in modo da poter avvicinare il maggior numero possibile di visitatori. I temi trattati toccheranno tutte le buone prassi in tema di ambiente, energia, territorio e società.
Per calcolare l’impronta ecologica relativa ad un insieme di consumi si mette in relazione la quantità di ogni bene consumato (es. grano, riso, mais, cereali, carni, frutta, verdura, radici e tuberi, legumi, ecc.) con una costante di rendimento espressa in kg/ha (chilogrammi per ettaro), ottenendo così una superficie.
Acquisire il concetto di limite nei confronti delle risorse del nostro pianeta rappresenta sicuramente il punto di partenza e l’acquisizione di una consapevolezza, per individuare ed intraprendere azioni di risanamento, tanto a livello politico quanto nella propria dimensione personale. Secondo i calcoli più recenti l’impronta ecologica dell’umanità è di 2,2 ettari globali pro capite, mentre quella dell’Italia è di 4,2 ettari.
Osservando i dati relativi all’impronta ecologica dei vari paesi del globo saltano subito agli occhi le varie facce del nostro pianeta, con paesi, come gli Stati Uniti, sulla soglia dei 10 ha/procapite con un incremento di circa il 150% rispetto alla superficie disponibile, passando dall’Italia, che con i suoi oltre 4 ha/procapite superata di poco la propria superficie disponibile di 3,8 ha/procapite, per arrivare a paesi come il Bangladesh, o molti paesi del Centro-Africa, ancora ben al di sotto di 1 ha/procapite. Si tratta di un tema di grandissima attualità, nel quale si sono inseriti i maggiori economisti mondiali, tra i quali, uno in particolare, Herman Daly, Professore di economia presso l’Università del Mariland, che tra i primi ha criticato il concetto di crescita economica.
La posizione di Daly parte innanzitutto dalla contestazione della mistificazione che viene fatta fra i due termini di “crescita” e di “sviluppo”, troppo spesso confusi ed usati come sinonimi, laddove invece con la crescita si dovrebbe andare ad indicare la dimensione quantitativa, mentre lo sviluppo dovrebbe di contro esaltare la componente qualitativa, che dovrebbe essere proprio quella ad avere maggior peso nelle scelte internazionali, dopo gli ultimi decenni di industrializzazione e di depauperamento indiscriminato del nostro pianeta. In un tale contesto, infatti, risulta davvero assurdo ed oramai inconsistente continuare a misurare la crescita e lo stato di benessere dei popoli e delle nazioni solo e soltanto valutando la componente quantitativa costituito dal PIL (prodotto Interno Lordo) e cominciare invece ad introdurre componenti che afferiscano anche alla sfera qualitativa della vita. Uno degli approcci più interessanti di superamento del PIL come unico indicatore dello sviluppo è rappresentato dal HDI (indice di sviluppo umano). Si tratta di un indicatore utilizzato per paragonare tra loro i diversi paesi per mezzo di tre variabili: aspettativa di vita, tasso di scolarizzazione e ricchezza (PIL reale). Solo indicatori composti come questo possono aiutarci a valutare la sostenibilità della vita in uno Stato, una regione o una città, dal momento che sono in grado di interpretare lo stato dell’ambiente e le pressioni delle attività umane e permettono la rappresentazione sintetica dei problemi indagati, senza perderne il contenuto informativo. Un tale approccio assumerebbe veramente un valore non solo analitico ma anche sinottico, raccogliendo informazioni finalizzate a permettere una valutazione, proprio come la temperatura corporea è un indicatore dello stato di salute dell’organismo umano. Gli indicatori dovrebbero essere semplici, credibili, sintetici.
Su questo attualissimo argomento in tema si svolgerà, nel corso del 2010, “Impronta EcoLogica”, la prima fiera della sostenibilità dedicata a chi desidera vivere bene in modo responsabile. Si tratta di una manifestazione multitarget itinerante che, nel periodo compreso tra marzo e maggio 2010, toccherà 3 differenti città italiane, Brescia, Carrara e Bologna in modo da poter avvicinare il maggior numero possibile di visitatori. I temi trattati toccheranno tutte le buone prassi in tema di ambiente, energia, territorio e società.
Sauro Secci
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Hola Alguien en mi grupo de Facebook compartió esta página , así que vine a dar una vuelta .
Grazie dell’apprezzamento, si tratta di un argomento fondamentale per una cultura della sostenibilità. Un caro saluto
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