Impronta ecologica Italiana: il punto della situazione con qualche “indicazione” per ridurla

global_footprint networkE’ passato un po’ di tempo da quando, alcuni anni fa, avevo parlato di quel metodo, messo a punto nell’oramai lontano 1996 da due ecologi, ricercatori canadesi della British Columbia University di Vancouver (Canada), l’ecologo William Rees e successivamente uno dei suoi allievi, Mathis Wackernagel, oggi direttore dell’Ecological Footprint Network (link sito), coniando un metodo, denominato impronta ecologica, oggi divenuto anche un grande strumento didattico per propagare la cultura ecologica tra le nuove generazioni (vedi post “L’impronta ecologica: una riflessione sugli stili di vita”). Si tratta di una metodologia capace di rapportare rilevamenti oggettivi sullo stile di vita delle persone e delle comunità, a partire dai loro consumi e sulla disponibilità di superfici, terrestri e acquatiche, necessarie a garantirli, per capirne meglio la tanto osannata ma spesso poco ricercata e praticata sostenibilità.

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Una metodologia che, pur con i suoi limiti di stima a livello di dettaglio, dal momento che non considera, per esempio, l’inquinamento, ad eccezione delle emissioni di CO2, è di grande efficacia ed immediatezza ed efficacia nel misurare l’impatto dell’uomo sugli ecosistemi, ha avuto in questi anni una progressiva diffusione trasversale sulla comunità, non rimanendo confinata all’ambito degli addetti ai lavori, ma affermandosi nei vari contesti, non ultimo, come diceco in premessa, quello scolastico-didattico, rendendo possibile un’opera di sensibilizzazione tra le nuove generazioni e divenendo di fatto uno degli strumenti più utilizzati nell’ambito degli studi sulla sostenibilità. Il bilancio ecologico (locale, regionale, globale) viene determinato calcolando la quantità “bioproduttiva” di suolo e acqua necessaria per sostentare un carico umano definito, cioè per reggere l’impronta ecologica che una determinata popolazione imprime sulla biosfera attraverso il proprio stile di vita. L’impronta ecologica permette di visualizzare con grande immediatezza cosa significa consumare troppo, superando la quota di risorse cui si avrebbe diritto. Infatti, confrontando l’impronta di un individuo (o regione, o stato) con la quantità di terra disponibile pro-capite (cioè il rapporto tra superficie totale e popolazione mondiale) si può capire la sostenibilità del livello di consumi del campione è sostenibile o meno.

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Un aggiornamento nell’andamento dell’impronta ecologica arriva in questi giorni, anche dal nostro paese, che si trova, insieme ad altri paesi dell’area mediterranea, come Grecia e Spagna, oltre che in una difficilissima crisi economica, anche in una posizione di deficit ecologico. A partire dall’inizio del boom economico, nel 1961 al 2004, l’impronta ecologica pro capite di un cittadino italiano medio è più che raddoppiata, passando da circa 2,0 a circa 5,0 ettari globali (gha), con una domanda pro capite di risorse naturali, aumentata a tal punto che noi italiani, contribuivamo nel 2004 a quasi il 25% del deficit ecologico dell’intera area mediterranea. Una graduale inversione di tendenza a questa ascesa, si è verificata proprio dopo il 2004, anno del picco, raggiungendo i 4,3 ettari pro capite nel 2009, risalendo pero a 4,5 ettari pro capite nel 2010. Una riduzione, quella avvenuta nel quinquennio 2005-2009, purtroppo non frutto, come auspicabile, di oculate e mirate politiche ambientali, ma conseguenza invece di un forte aumento dei prezzi e della contemporanea recessione del nostro sistema economico.

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Andamento Impronta Ecologica Italia 1961 – 2010 (Fonte Ecological Footprint Network)

Tendenze davvero simili si ritrovano, in paesi mediterranei come e anche in Grecia e Spagna, come evidenziato da recenti studi elaborati nell’ambito dal Global Footprint Network nell’area del Mediterraneo, come “MEDITERRANEAN ECOLOGICAL FOOTPRINT TREND(scaricabile in calce al post), uscito nel 2012 ed elaborato anche dal direttore del programma Mediterraneo, Alessandro Galli, allievo dell’indimenticato e compianto ecologo Enzo Tiezzi dell’Università di Siena. Molte sono in realtà le opzioni per la promozione di uno sviluppo realmente durevole e sostenibile a disposizione delle singole nazioni, nell’ambito di un contesto con risorse naturali limitate, con opportune manovre su grandi bilanci finanziari e prendendo decisioni infrastrutturali ben orientate.
Venendo alla analisi di dettaglio della composizione aggiornata dell’impronta ecologica italiana, questa vede un peso prevalente dei consumi alimentari con un peso del 21% del totale), seguiti dai consumi domestici al 18% del totale e alla mobilità che si attesta al 15%.

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Logica conseguenze sul piano delle politiche da attuare sarebbero proprio altrettante riforme delle politiche in questi tre strategici settori, orientata a diminuire la dipendenza dalle risorse naturali, rilanciando nel contempo una nuova economia, non dimenticando la grande vocazione agricola italiana, fatta di innumerevoli eccellenze alimentari, oggi costretta ad importare grandi quantitativi di grano, cereali e carne dalla Francia, per non parlare di ortaggi e frutta dalla Spagna. Tutto questo in un contesto in cui lo spreco alimentare è giunto oggi, anche a causa della perdità di molti dei valori di sobrietà tipici della civiltà contadina, a livelli molto alti (vedi post “La crisi economica e gli impressionanti numeri dello spreco alimentare mondiale“). Potrebbe partire proprio da una riduzione degli sprechi alimentari un vero rilancio della nostra produzione agricola, con particolare riferimento agli aspetti qualitativi della produzione, orientati alla produzione di prodotti biologici.
Venendo al settore domestico, oramai la sindrome del “usa e getta”, già ha oramai completamente assaliti, con la perversione e l’induzione al consumo, determinata da un continuo e frenetico avvicendamento dei prodotti ed dal perverso fenomeno della “obsolescenza programmata” degli stessi. Un tema toccato in questi giorni anche da Mario Tozzi in un editoriale apparso sul quotidiano La Stampa (link editoriale) sull’”Earth Overshoot Day”, celebrato lo scorso 19 agosto, nel quale l’autore rilevava come un materiale durevole come la plastica è quotidianamente usato per imballaggi e per fabbricare oggetti che nella maggior parte dei casi sono utilizzati solo poche volte. Un caso che dovrebbe essere oggetto di intervento di politiche finalizzate a diminuire gli imballaggi, favorendo la produzione di prodotti, utensili e elettrodomestici riparabili e riutilizzabili, tutto questo con lo sfondo fondamentale ed irrinunciabile di risparmio ed efficienza energetica. Ultima ma non meno importante la situazione italiana relativa al peso ambientale del settore dei trasporti, che ha un urgente bisogno di ulteriori e maggiormente strutturate politiche orientate a scoraggiare maggiormente il trasporto privato a favore di quello pubblico, oltre agli investimenti finalizzati alla mobilità elettrica (vedi post “Auto elettrica: postazioni di ricarica veloce e corridoi elettrici europei“) e nel settore ricerca per lo sviluppo di combustibili alternativi, come ad esempio i biocombustibili di seconda generazione, dove anche in Italia stanno nascendo virtuosi esempi (vedi post “Biocarburanti di seconda II generazione: inaugurata la prima nuova bioraffineria al mondo di Crescentino (VC)”), o come GNL e idrogeno (vedi post “Mobilità sostenibile in Europa: ecco la “clean fuel strategy” con l’opzione GNL“) e di nuove tecnologie per la produzione di energia elettrica. Putroppo molte delle politiche auspicabili elencate sono assolutamente latitanti, ad oggi, dalle politiche attuativi del governo, in un contesto nel quale si stanno facendo sempre più avanti approcci di “economia circolare” (vedi post ”Alla ricerca della via di uscita dalla crisi: ecco l’”Economia Circolare” e la riscoperta del valore del “riparare”), che, proprio per i suoi valori intrinseci di base, legati proprio sui valori della civiltà contadina che ci ha accompagnato fino alla fine degli anni ’50, potrebbe vedere proprio riconversione agricola del sistema economico italiano, alla luce delle nuove e sempre più performanti e scalabili tecnologie. Un modello nel quale possa essere contemplato l’utilizzo dei terreni agricoli per funzioni diverse come:

  • Food: per la produzione di cibo con la valorizzazione delle innumerevoli eccellenze alimentari tipiche dei nostri territori;
  • No Food: per la produzione di combustibili come bioetanolo e biocombustibili di seconda generazione da scarti agricoli e forestali derivanti dalla corretta coltura e manutenzione del bosco, tanto importante anche per la prevenzione del dissesto idrogeologico, arrivando alla produzione di plastiche alternative come le bioplastiche a base amidacea, cellulosica e da oli vegetali per imballaggi e altri usi.

Indubbiamente una serie di indicazioni che dovrebbero trovare ampie sensibilità in politiche lungimiranti di governo per il nostro paese, anche se, fino ad oggi, stiamo assistendo a ben altre strategie, davvero miopi  e molto lontane del recepire queste fondamentali e credo nobilissime istanze orientate al bene comune ed alla salvezza di ciascuno di noi, ma sopratutto alle generazioni che verranno.

Sauro Secci

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