L’impatto del traffico stradale sulla qualità dell’aria nelle aree urbane: l’analisi del lockdown indotto dal Covid19 in Italia

Un nuovo interessante studio sull’impatto del traffico stradale sulla qualità dell’aria nelle aree urbane a fronte del lockdown imposto dalla pandemia da Covid19 in Italia, quello condotto da un gruppo di ricercatori del CNR-IBE di Firenze, Giovanni Gualtieri, Lorenzo Brilli, Federico Carotenuto, Carolina Vagnoli, Alessandro Zaldei, Beniamino Gioli e pubblicato sulla rivista internazionale “Environmental Pollution“. (fonte immagine di copertina: Pixabay)

 

Le restrizioni imposte dal lockdown dovuto al Covid19 hanno causato modifiche nelle emissioni di inquinanti atmosferici e di gas serra. Il traffico stradale in ambito urbano è stato il settore più colpito, con una riduzione media del 48-60% in Italia. Ciò ha offerto un’opportunità senza precedenti per valutare come una prolungata (circa 2 mesi) e rilevante riduzione delle emissioni del traffico abbia avuto un impatto sulla qualità dell’aria in ambito urbano. Nello studio sono state prese in esame sei delle otto città più popolate d’Italia caratterizzate da differenti condizioni climatiche: Milano, Bologna, Firenze, Roma, Napoli e Palermo. Lo scenario selezionato (24/02/2020‒30/04/2020) è stato messo a confronto con uno meteorologicamente comparabile nel 2019 (25/02/2019–02/05/2019). Sono state utilizzate misure meteo e di NO2, O3, PM2.5 e PM10 derivate da 58 stazioni meteorologiche e di qualità dell’aria, mentre la mobilità del traffico è stata derivata da big data a scala comunale.

I livelli di NO2 sono notevolmente diminuiti in tutte le aree urbane (da ‒24.9% a Milano a ‒59.1% a Napoli), in misura approssimativamente proporzionale ma inferiore alla riduzione del traffico. Al contrario, le concentrazioni di O3 sono rimaste invariate o addirittura aumentate (fino al 13.7% a Palermo e al 14.7% a Roma), probabilmente a causa del ridotto consumo di O3 dovuto alle minori emissioni di NO dei veicoli e alle minori emissioni di NOx non compensate da analoghe riduzioni delle emissioni di COV. Il PM10 ha mostrato riduzioni fino al 31.5% (Palermo) e aumenti fino al 7.3% (Napoli), mentre il PM2.5 ha mostrato riduzioni del 13–17% controbilanciate da aumenti fino al 9%. Un maggiore utilizzo del riscaldamento domestico (+ 16–19% a marzo), anche dovuto a condizioni meteorologiche più fredde rispetto al 2019 (da ‒0.2 a ‒0.8 ° C) può in parte spiegare l’aumento delle emissioni primarie di PM, mentre un aumento delle attività agricole può spiegare l’aumento delle emissioni di NH3 che portano alla formazione di aerosol secondario.

A seguire, a livello esemplificativo il grafico relativo all’andamento degli inquinanti nella città di Milano (nello studio sono disponibili tutti).

Questo studio ha confermato la complessa natura caratterizzante l’inquinamento atmosferico, anche nel caso in cui una delle principali fonti emissive sia chiaramente isolata e controllata, nonché la necessità di sforzi costanti di decarbonizzazione in tutti i settori emissivi per apportare un miglioramento concreto alla qualità dell’aria e alla salute pubblica.

Link articolo “Environmental Pollution” 

Fonte: CNR-IBE (Istituto di Bioeconomia) Firenze

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Ozono inquinante “secondario” ma non d’estate: i dati 2019 e 2020 di SNPA

Quello dell’inquinamento atmosferico è un ambito sempre più composito di agenti, molti dei quali, come NO2 (biossido di azoto), SO2 (biossido di zolfo), CO2, PM10, PM2,5, emessi direttamente da sorgenti antropogeniche, come inquinamento industriale, residenziale, traffico etc, ed altri, come l’ozono troposferico (O3), non emessi direttamente da attività umane, ma che si formano in atmosfera a seguito di complesse reazioni chimiche, per l’ozono stesso attraverso l’interazione tra i composti organici volatili (VOC) e gli ossidi di azoto (NOX) in presenza di irraggiamento solare e temperatura elevata e per questo dalla forte connotazione stagionale.

L’estate è quindi la stagione nella quale le concentrazioni di ozono divengono più critiche, sopratutto nelle aree urbane più inquinate e, puntuale anche quest’anno, arriva l’analisi di SNPA (Sistema Nazionale Protezione Ambientale), relativa al 2019 ed allo stato parziale dell’anno in corso 2020 con non poche criticità.

Così come avviene per gli altri inquinanti atmosferici, il Sistema nazionale per la protezione dell’ambiente, attraverso le reti di monitoraggio della qualità dell’aria gestite dalle agenzie ambientali delle regioni e delle province autonome di Trento e Bolzano, rilevano l’ozono, un inquinante particolarmente critico soprattutto nella stagione estiva.

La rete di monitoraggio dell’ozono comprende circa 350 stazioni presenti su tutto il territorio nazionale. I dati riepilogativi dei monitoraggi sono resi disponibili nei report annuali sulla qualità dell’aria prodotti dalle singole agenzie. Inoltre, tutte le agenzie rendono disponibili i dati giornalieri dell’ozono rilevati, attraverso appositi bollettini. Alcune agenzie per questo inquinante forniscono i dati in tempo reale e le previsioni per i giorni successivi.

Per quanto riguarda il 2019 e la stagione 2020 sul sito SNPA https://www.snpambiente.it sono stati pubblicati i dati dell’ozono 2019 del monitoraggio SNPA e la situazione nell’estate 2020.

Quando si forma l’ozono

L’ozono O3, gas formato da tre atomi di ossigeno, in natura si trova in concentrazioni rilevanti negli strati alti dell’atmosfera terrestre, dove protegge dalla radiazione ultravioletta. Negli strati bassi dell’atmosfera, invece, è presente in basse concentrazioni, tranne nelle aree in cui la presenza di alcuni inquinanti chimici, in concomitanza di fattori meteo-climatici favorevoli come le alte temperature estive, può indurne la formazione con conseguente aumento della concentrazione.

 

Un inquinante dannoso per la salute

La presenza di elevati livelli di ozono, a causa del suo alto potere ossidante , danneggia la salute umana, ma anche quella degli animali e delle piante (ne influenza la fotosintesi e la crescita, entra nel processo di formazione delle piogge acide, con danni alla vegetazione ed ai raccolti), deteriora i materiali (danni al patrimonio storico-artistico) e riduce la visibilità.

In generale occorre ricordare che gli effetti dell’ozono sono contraddistinti da grandi differenze individuali e gli eventuali disturbi sanitari non hanno carattere cumulabile, ma tendono a cessare con l’esaurirsi del fenomeno di concentrazione acuta di ozono.

soggetti più sensibili al fenomeno sono i bambini, gli anziani, le donne in gravidanza, chi svolge attività fisica o lavorativa all’aperto. I soggetti a rischio sono le persone asmatiche, con patologie polmonari o cardiache.

Quando ci sono giornate con elevati valori di ozono queste persone devono evitare prolungate esposizioni all’aperto e ridurre al minimo attività fisiche affaticanti (passeggiate in bicicletta, attività sportive, ecc.) in particolare nelle ore più calde.

I dati del 2019

Nel 2019, a livello nazionale, l’obiettivo a lungo termine per la protezione della salute umana (OLT) per l’ozono – 120 µg/m³ come media massima giornaliera calcolata su 8 ore – è stato superato in 297 stazioni di monitoraggio del SNPA su 324 pari al 91,7% delle stazioni con copertura temporale sufficiente; l’OLT è stato superato per più di 25 giorni in 182 stazioni (56,2%).

Complessivamente la rete di monitoraggio del SNPA per l’ozono nel 2019 comprendeva 355 stazioni, di queste 324 hanno raggiunto la copertura temporale minima del 90% (al netto delle perdite di dati dovute alla taratura periodica ed alla manutenzione ordinaria) richiesta dal D.Lgs. 155/2010 per considerare validi i valori rilevati.

Un dato che evidenzia come i livelli di ozono estivo sono elevati in gran parte del Paese, con alcune aree (in particolare la pianura Padana) dove si registrano situazioni più evidenti di criticità.

Per quanto riguarda gli indicatori di breve periodo, cioè la soglia di allarme (superamenti di 240 µg/m³ della massima media oraria) e la soglia di informazione della popolazione (superamenti di 180 µg/m³ della massima media oraria), sono state superate, rispettivamente in 34 stazioni (10,5%) e in 161 stazioni (49,7%).

In particolare la soglia di allarme è stata superata solamente in stazioni di 4 regioni: Lombardia (20), Veneto (9), Piemonte (4), provincia autonoma di Trento (1).

Per quanto riguarda la soglia di informazione, invece, non è stata superata solamente in quattro regioni (Abruzzo, Calabria, Molise e Sardegna, ). Tuttavia, in molte regioni i superamenti sono stati in numero piuttosto ridotto (<5). Le situazioni dove la soglia di informazione è stata ripetutamente superata sono: Lombardia (45 stazioni su 46), Emilia-Romagna (26 su 34), Veneto (23 su 23), Piemonte (22 su 27), Friuli Venezia Giulia (14 su 16), Campania (7 su 16), Lazio (6 su 24), provincia autonoma di Trento (5 su 5).

 

I dati del 2020

Come abbiamo già evidenziato, un elemento determinante che incide sulle concentrazioni di ozono rilevate, è la presenza o meno di elevate temperatura. Questo fatto è facilmente riscontrabile nei dati che sono stati raccolti per quanto riguarda questo inquinante nei mesi di giugno e luglio 2020.

Infatti in questi due mesi, solamente in Lombardia, è stata superata la soglia di allarme di 240 µg/m3 come massima media oraria (livello oltre il quale vi è un rischio per la salute umana in caso di esposizione anche di breve durata) oltre la quale scattano le misure previste dai piani d’azione comunali. Ed anche per la regione lombarda il superamento ha interessato solamente due stazioni.

Solamente 14, nel mese di giugno, anche le situazioni nelle quali, invece, è stata superata soglia di informazione della popolazione di 180 µg/m3 come massima media oraria. Oltre tale livello vi è un rischio per la salute umana in caso di esposizione anche di breve durata per alcuni gruppi particolarmente sensibili, quali anziani e bambini, che devono essere tempestivamente informati affinché evitino di stare all’aperto, almeno nelle ore più calde della giornata.

Infatti, la soglia di informazione è stata superata in giugno solamente in quattro regioni, Lombardia (6 stazioni), Campania (4 stazioni), Piemonte (3 stazioni), Emilia-Romagna (1 stazione).

A conferma di un quadro “tranquillo” per il mese di giugno, il valore massimo (massima media oraria) registrato è stato di 192 µg/m3 in Piemonte e Campania, seguito da 191 in Lombardia, e 190 in Emilia-Romagna.

Un po’ diversa la situazione in luglio, specialmente nell’ultima parte del mese, quando le temperature hanno iniziato ad aumentare e, regolarmente, si sono registrati livelli maggiori di ozono. I superamenti del livello di informazione sono stati registrati complessivamente in 72 stazioni in diverse regioni: Lombardia (31 stazioni su 46), Veneto (13 su 24), Emilia-Romagna (11 su 34), Campania (su 35), Trento (4 su 6). Negli altri casi i superamenti sono stati ancora più sporadici.

Un quadro più “caldo” per il mese di luglio, è confermato anche dai valori massimi registrati, che hanno raggiunto i 256 µg/m3 in Lombardia, 217 in Veneto, 216 nel Lazio, 212 a Trento, 211 in Campania e 210 in Emilia-Romagna.

Naturalmente un bilancio definitivo della stagione 2020 per quanto riguarda questo inquinante sarà possibile trarlo dopo che saranno disponibili i dati dei mesi di agosto e settembre, ma sin d’ora possiamo azzardare l’ipotesi che avremo dati più contenuti rispetto a quelli registrati nel corso del 2019, proprio a causa della stagione complessivamente più mite (almeno nella prima parte dell’estate).

 

Fonte articolo (SNPA)

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Investimenti in impianti energetici a carbone: un rapporto invita alla desistenza

Gli investitori in impianti energetici alimentati a carbone rischiano di sprecare centinaia di miliardi di sterline, visto che le energie rinnovabili sono oramai più economiche delle nuove centrali a carbone in ogni parte del mondo: questa l’indicazione che emerge perentoria nell’ultimo rapporto del think tank Carbon Tracker.

Una indicazione estesa anche hai principali mercati degli impianti a carbone come Stati Uniti, Europa, Cina, India e Australia, dove il costo dell’energia prodotta da nuove centrali eoliche o solari rispetto è più competitiva rispetto alle nuove centrali a carbone.

Esemplificativo il caso del Regno Unito dove ben l’82% dell’energia elettrica prodotta dai 12 gigawatt ancora in esercizio del parco termoelettrico a carbone del Regno Unito ha un costo superiore rispetto alle nuove energie rinnovabili, ha affermato Carbon Tracker.

Nel Regno Unito, la congiuntura dei prezzi del mercato del carbonio, un calo della domanda e sussidi convogliati alle energie rinnovabili stanno spingendo alla graduale alienazione degli impianti a carbone prima della data di chiusura degli impianti, recentemente spostata nell’ottobre 2024.

In tutto il mondo, circa il 60 percento delle centrali a carbone esistenti sta produce energia elettrica ad un costo superiore rispetto al costo dell’energia prodotta dai nuovi impianti ad energie rinnovabili.

Carbon Tracker sta svolgendo una forte azione di sollecitazione verso, governi e investitori per annullare la ancora grande quantità di progetti di impianti a carbone annunciati, autorizzati o in costruzione in tutto il mondo, con uno spreco di 638 miliardi di dollari in investimenti di capitale.

Nonostante il mercato stia guidando la transizione energetica a basse emissioni di carbonio, molti governi sembrano non ascoltare.

Ha davvero un grande senso dal punto di vista economico per i governi cancellare immediatamente i  nuovi progetti  basati sul carbone.

Sul piano poi della limitazione del riscaldamento globale a 1,5 ° C, per evitare i devastanti impatti dei cambiamenti climatici, l’uso globale del carbone per la produzione di energia elettrica dovrà diminuire dell’80% dal 2010 al 2030.

Sono quasi 500 GW di nuova potenza installata, quelli degli impianti a carbone pianificati o in costruzione nel mondo, ma Carbon Tracker mette in guardia governi e investitori sul fatto che potrebbero non recuperare mai gli investimenti che si accingono a  fare. Infatti  il progressivo calo dei costi di energia eolica e solare contestualizzato alle sempre più stringenti normative esistenti sull’inquinamento, elemento di esternalità con ingenti risvolti on termini di costi sanitari fornisce un nuovo quadro nel quale il carbone non è più la forma di energia più economica in tutti i principali mercati mondiali.

In ambito UE con alte quotazioni sul mercato del carbonio (ETS) ed anni di forti investimenti in energie rinnovabili seppure con connotazioni differenti tra i diversi stati, con ancora paesi fortemente dipendenti dal carbone come Polonia e Republlica Ceca, con quasi la totalità della capacità produttiva da carbone, pari al 96%, che presenta un costo dell’energia più elevato rispetto alle nuove rinnovabili.

Anche in  Cina, paese che ospita metà della produzione di energia elettrica da carbone mondiale, ben  sette impianti su dieci attualmente in esercizio, presentano un costo complessivo del kWh più alto rispetto alla costruzione di nuovi parchi eolici e solari.

Nel rapporto si sottolinea come la Cina, la cui economia è stata duramente provata dal coronavirus, ha una ragione in più per evitare investimenti alla costosa produzione energetica da carbone, visto che il paese stava pianificando l’approvazione di nuove centrali a carbone. Carbon Tracker ha esortato la Cina a distribuire il suo capitale di stimolo “in modo efficiente evitando di investire in energia da carbone che è economicamente ridondante e disastrosa per l’ambiente”.

Link sito Carbon Tracker

Sauro Secci

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Incendi-temporali-fulminazioni-incendi: il triste triangolo vizioso della torrida estate australiana

I cambiamenti climatici stanno creando nuove situazioni estreme anche nella meteorologia convenzionale, con l’Australia scenario, in questi giorno di estate australe, di scene apocalittiche caratterizzate da incendi estremi, molti dei quali generati proprio dalle fulminazioni dei temporali attraverso la versione “piro” dei classici “cumulonembi” alla base dei temporali. (fonte immagine di copertina: Bureau of Meteorology, Victoria).

Causa di molti degli incendi che da settimane stanno dilaniando il vastissimo territorio australiano è costituita proprio dalla formazione di piro-cumulonembi, autentiche tempeste generate da fumo e calore in atmosfera, capaci di innescare così un perverso e micidiale circolo vizioso meteorologico.

Ma vediamo di capire da cosa sono caratterizzate queste nuove formazioni nuvolose, altra nuova dimensione fenomenologica dei cambiamenti climatici in atto. In sostanza, secondo il Bureau of Meteorology in Victoria, proprio gli incendi sarebbero alla base della formazione dei piro-cumulonembi, addensamenti nuvolosi capaci di provocare violenti temporali come ben documentano le immagini del video in calce all’articolo. Si tratta in sostanza di tempeste “indotte” le quali, invece di riuscire a domare le fiamme, riescono al contrario ad alimentarle e consolidarle attraverso fulmini e raffiche di vento, provocando la aerodispersione a lunga gittata di tizzoni ardenti che aggiungono danno al danno.

Si tratta di un fenomeno visibile anche da satellite come documentalo nella immagine seguente.

vedi anche l’animazione disponibile nel profilo twitter del Bureau of Meteorology dello stato federale del Victoria

Quando gli incendi hanno estensioni molto grandi, i moti ascensionali di fumo e aria calda possono interagire con l’atmosfera, alterandone l’equilibrio in maniera imprevedibile. In sostanza aria e vapore si raffreddano salendo di quota, creando  una nube molto instabile a sviluppo, capace di diffondere le ceneri ardenti su aree molto vaste, sparandole sino alla stratosfera, da 10 a 50 km dal suolo.

Lo scontro che si verifica con l’aria relativamente calda fuori dalla zona interessata dall’incendio è in grado di generare fulmini che possono innescare una perversa reazione a catena generando nuovi roghi, giungendo in condizioni estreme di forti venti ad essere talmente intensi da causare vortici di fuoco, definiti “firenado”, colonne di fuoco capaci di propagarsi come mini-tornado.

Un piro-cumulonembo si caratterizza dal classico cumulonembo tipico delle giornate calde estive per il fatto che le correnti ascensionali non sono formate dal calore irradiato dal suolo ma da quello sprigionato dalle fiamme. Sono proprio gli scienziati a sostenere come i piro-cumulonembi sarebbero in aumento a causa dei cambiamenti climatici e del riscaldamento globale, con le alte temperature e la siccità che rappresentano i presupposti ideali per la propagazione di incendi sempre più intensi e vasti, con grandi pennacchi vigorosi di fumo, ceneri e vapore come immense ciminiere naturali. 

A dare la percezione della dimensione apocalittica degli incendi di questo inizio estate australiana un grafico comparativo delle superfici bruciate nei maggiori incendi recenti avvenuti nel pianeta, con gli eventi australiani che hanno doppiato per superficie bruciata quelli dell’Amazzonia, elaborato dalla Russian Federal Forestry Agency diffusi attraverso BBC e New York Times

Si tratta di un cataclisma che ha risvolti allucinanti per la vastissima biodiversità dell’Australia, con milioni e milioni di creature carbonizzate in queste ultime apocalittiche settimane. La foto seguente mostra, in tutta la sua crudezza, un giovane canguro carbonizzato mentre è alla disperata ricerca di una via di fuga dai roghi devastanti.

Un fatto che fa oltremodo riflettere quello che l’Australia è tra i paesi che hanno sancito l’ennesimo fallimento al COP25 di Madrid, proprio mentre sta attraversando la sua ennesima estate rovente, addirittura in netto anticipo rispetto al picco dell’estate australe. Nel video seguente in time-lapse si può osservare chiaramente la formazione accelerata di un piro-cumulonembo comprensivo delle sue conseguenze.

A seguire un breve ma significativo filmato che esplica come meglio non potrebbe l’evoluzione del perverso triangolo incendio-temporale-fulminazione-incendio.

Sauro Secci 

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Inquinamento da PFAS: non solo Veneto

Le sostanze alchiliche perfluorifluorurate, raggruppate nell’acronimo di PFAS vedono in Italia un grande impatto ambientale in un triangolo geografico collocato tra le provincie di Padova, Vicenza e Verona con baricentro intorno alla Miteni di Trissino (VI), conosciuta anche come la fabbrica dei veleni, che ha chiuso i suoi battenti solo un anno fa, con pesante compromissione della falda acquifera e quindi una gravissima emergenza sanitaria. (immagine copertina: esempio struttura molecolare di un composto PFAS – Fonte: 3M- Pfasact)

Ad evidenziare come il problema dei PFAS non sia esclusivamente veneto, ma assuma contorni ben più distribuiti nell’intera matrice geografica della UE, una relazione pubblicata dall’Agenzia europea dell’ambiente (EEA), dal titolo “Emerging chemical risks in Europe — PFAS”, fornisce una panoramica sui rischi riconosciuti o potenziali per la salute umana e degli ecosistemi, legati alla famiglia delle sostanze alchiliche perfluorifluorurate, estremamente tossiche e persistenti, definendo cause e pericoli per la salute umana.

Una famiglia, quella dei PFAS (acidi perfluoroacrilici) alla base di molti prodotti di ampia utilizzazione negli ambiti industriale, cosmetico e tessile, costituiti da catene alchiliche idrofobiche fluorurate, corrispondenti ad  acidi molto forti caratterizzati da una struttura chimica che li rende estremamente stabili termicamente, rendendoli così anche resistenti ai principali processi naturali di degradazione. Per questa loro caratteristica i PFAS vengono usati, per esempio per padelle e casseruole da cucina, per aumentare la repellenza all’olio e all’acqua, per ridurre la tensione superficiale e per aumentare la resistenza alle alte temperature o ad altri prodotti chimici.

Risultano attualmente sul mercato oltre 4.700 diversi tipi di composti della famiglia PFAS, con quelli più diffusi corrispondenti al PFOS (perfluorottanosulfonato) e il PFOA (acido perfluoroottanoico), con quest’ultimo caratterizzato da una persistenza negli ecosistemi e nell’organismo umano di oltre 5 anni.

Albero dei PFAS (Fonte EPA)

In assenza di una specifica mappatura dei siti potenzialmente inquinati da PFAS a livello UE, la relazione EEA rileva come siano state al momento le attività di monitoraggio effettuate nei singoli paesi a rilevare elevate concentrazioni in tutta Europa. In Italia, un approfondito studio del CNR-IRSA del 2013 ha evidenziato la grande emergenza a cavallo tra le provincie di Padova Vicenza e Verona, con elevate concentrazioni di tali sostanze, ed il coinvolgimento anche di altre aree del paese intorno alle principali aste fluviali come Po, Tevere, Adige, Arno.

Caratterizzazione presenza PFAS acque potabili area veneta (Fonte CNR-IRSA)

Emblematica in questo senso la situazione del Valdarno Inferiore, tra le provincie di Firenze Prato e Pisa, dove l’effetto combinato dei distretti tessile (prato) e conciario (Santa Croce), fa crescere esponenzialmente la presenza di PFAS sia nelle acque di superficie che nelle falde acquifere, come mostra in maniera eloquente il grafico seguente, tratto proprio dallo studio del CNR (Polesello).

Caratterizzazione presenza PFAS acque potabili Valdarno Inferiore (Fonte CNR-IRSA – Polesello)

L’effetto più impattante della produzione e dell’utilizzo dei PFAS in questi anni è stato la contaminazione delle acque potabili in diverse aree europee. L’attività di biomonitoraggio umano svolta ha portato a riscontrare concentrazioni variabili anche nel sangue dei cittadini. I fattori principali di esposizione per l’organismo umano oltre all’acqua potabile, risultano essere gli imballaggi per alimenti, le creme e i cosmetici, i tessuti ed altri prodotti di consumo su cui vengono applicate tali sostanze.

A livello epidemiologico, pur con gli studi ancora in evoluzione, relativamente agli effetti sulla salute umana si parla di immunodeficienza, alterazioni del sistema endocrino, insorgenza di tumori nei confronti di reni e testicoli, sviluppo di malattie della tiroide.

Fonte: relazione EEA “Emerging chemical risks in Europe — PFAS”

Ingenti poi le stime dei costi sanitari e di quelli salatissimi legati alle bonifiche ambientali stimati a livello europeo da parte EEA, in decine di miliardi di euro all’anno e sulla base delle quali la stessa Agenzia indica l’adozione di misure precauzionali per limitare l’uso delle sostanze contaminanti e la loro progressiva, graduale sostituzione con sostanze chimiche sicure, prioritarie e fondamentali per limitare l’inquinamento dell’intero ecosistema.

Sul piano delle azioni infine, la Commissione europea ha predisposto una strategia sulla sostenibilità dei composti chimici che, come si legge testualmente nella comunicazione “aiuterà sia a proteggere meglio i cittadini e l’ambiente da sostanze chimiche pericolose sia a incoraggiare l’innovazione per lo sviluppo di alternative sicure e sostenibiliIl quadro normativo dovrà rapidamente riflettere le prove scientifiche sul rischio rappresentato dagli interferenti endocrini, dalle sostanze chimiche pericolose nei prodotti, comprese le importazioni, dagli effetti combinati di diverse sostanze chimiche e da sostanze chimiche molto persistenti”.

Link relazione “Emerging chemical risks in Europe — PFAS” di EEA

Sauro Secci

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«L’Ecofuturo magazine » riparte: il bruco è diventato farfalla

L’Ecofuturo magazine » riparte. Amici, dopo le difficoltà iniziali che il nostro nuovo progetto editoriale aveva riscontrato in edicola, sembrava impossibile proseguirne la realizzazione. Il sistema distributivo delle edicole si è mostrato infatti inadeguato per consentire a una nuova rivista di nicchia di un piccolo editore la sostenibilità necessaria. Per raggiungere tutte le edicole italiane è necessario stampare oltre 25 mila copie, con tutti i costi fissi – stampa, distribuzione e resi – che ciò comporta. Si tratta di economie che non consentono alle nuove iniziative di decollare.

Ma convinti della qualità del prodotto e della necessità di diffonderne i contenuti e la prospettiva, noi non ci siamo arresi e con mesi di impegno abbiamo ripensato completamente -insieme agli amici di EcoFuturo- il modello distributivo della rivista, la quale d’ora in avanti uscirà in formato digitale interattivo e sarà distribuita gratuitamente attraverso una vasta rete di contatti sul web che ci permette di raggiungere oltre 600mila persone attraverso newsletter e diversi milioni fra siti e social network.

Il passaggio non è stato certo facile, ha richiesto una cessione della testata (dalla editrice C&C, che ringraziamo ancora per la fiducia iniziale, ma che poi non si è mostrata interessata a questa nuova sfida sul web, alla ECOnnection che invece ha creduto nell’enorme potenzialità di questa conversione), ha richiesto inoltre un lungo iter burocratico per le autorizzazioni e un adeguamento tecnico davvero non banale della rivista al nuovo formato digitale interattivo.

Ma dopo lunghi mesi di traversata del deserto ora siamo finalmente pronti a ripartire, con rinnovato entusiasmo e con grande fiducia che questa nuova modalità distributiva possa raggiungere risultati molto più importanti di quanto le edicole e il cartaceo avrebbero mai potuto permetterci.

Eccovi dunque il secondo numero della rivista « L’ECOFUTURO MAGAZINE”, che d’ora in poi uscirà in questo formato digitale interattivo, sempre con cadenza bimestrale:

All’interno della nuova rivista online anche la mia rubrica “Musica per l’Ambiente – Parole in Musica”

Link lancio rivista on line (sito Ecofuturo.eu)

Sauro Secci

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Transizione energetica: la fotosintesi clorofilliana fa scuola ancora una volta

La fotosintesi clorofilliana fa ancora una volta scuola nel grande contesto delle tecnologie a supporto della transizione energetica, essendo alla base per esempio del fotovoltaico organico nell’ambito del quale nascono sempre nuove linee di ricerca (vedi post “Fotovoltaico organico ed economia circolare..“). Una nuova linea di ricerca ispirata alla fotosintesi è quella Cambridge University, la quale ha messo a punto una “foglia artificiale” capace di produrre syngas.

E’ stato presentato in questi giorni un nuovo dispositivo capace di produrre gas di sintesi rinnovabile. Si tratta di una speciale foglia artificiale capace di agevolare la produzione dei cosiddetti “carburanti solari”, messa a punto da un team di ricercatori Dipartimento di Chimica alla Cambridge University, coordinati dal Professor Erwin Reisner. E’ stato lo stesso coordinatore del progetto, professor Reisner a descrivere a grandi linee lo stesso commentando: “Potresti non aver mai sentito parlare del syngas, ma ogni giorno consumi prodotti che sono stati ottenuti utilizzandolo. Essere in grado di produrlo in modo sostenibile sarebbe un passo fondamentale nella chiusura del ciclo globale del carbonio e nella creazione di un’industria chimica e dei combustibili sostenibile. 

Una miscele di gas composta principalmente da idrogeno e monossido di carbonio di origine non “naturale”, il siyngas viene utilizzato per una vasta gamma di prodotti, come carburanti, prodotti farmaceutici, materie plastiche e fertilizzanti. 

Ma vi è un elemento particolare che contraddistingue la “foglia artificiale” messa a punto dalla Università britannica, la quale, a differenza degli attuali metodi produttivi industriali del gas, basati su reforming, fermentazione o processi autotermici,   è in grado di generare il combustibile con il solo utilizzo della luce solare e dell’anidride carbonica, il cui funzionamento ricalca proprio il processo naturale di fotosintesi, con il quale le piante utilizzano l’energia solare per trasformare l’anidride carbonica in composti di sostegno.

Analizzando la configurazione di questa “foglia artificiale”, la stessa è basata su di una architettura semplice e lineare, costituita da due assorbitori di fotoni (paragonabili alle molecole delle piante preposte alla raccolta della luce), combinati con un catalizzatore a base di cobalto. Alla immersione nell’acqua, uno dei due elementi produce ossigeno, mentre l’altro riduce l’anidride carbonica e l’acqua in monossido di carbonio e idrogeno, dando origine alla miscela di syngas. Un’altra significativa scoperta del team di ricerca britannico e costituito dal fatto che gli assorbitori di fotoni messi a punto riescono a funzionare anche con bassi livelli di luce solare, che caratterizzano giornate piovose o comunque con copertura nuvolosa, che rende la tecnologia adattabile non solo ai paesi ad alta insolazione ma ud una gamma molto ampia di latitudini e non solo alle stagioni calde, rendendolo utilizzabile dall’alba al tramonto, in qualsiasi parte del mondo.

I prossimi obiettivi della road map per il team di ricerca britannico sono quelli di poter utilizzare la tecnologia messa a punto per produrre direttamente un’alternativa di carburante liquido sostenibile alla benzina.

Link video di espplicativo della nuova tecnologia (sito “The Indipendent”)

Link sito Cambridge University

Sauro Secci

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Stoccaggio criogenico: dopo l’automotive la tecnologia del GNL si apre allo storage

Dopo il graduale e fondamentale spazio che si sta creando nell’ambito della minimizzazione dell’impatto ambientale nei trasporti pesanti, la tecnologia del GNL (Gas Naturale Liquefatto) e della criogenizzazione si sta facendo strada anche nel sempre più articolato ambito delle tecnologie di accumulo, con l’inaugurazione, in Gran Bretagna, del primo impianto di stoccaggio criogenico su larga scala, fondamentale per dare stabilità alla rete elettrica nella transizione verso le energie rinnovabili (fonte foto copertina: Highview Power).

Si tratta di un sistema che si configura in una più ampia strategia della società Highview Power per sviluppare avanzate criobatterie in Gran Bretagna, Spagna, Medio Oriente e Sudafrica che si configura nella famiglia dei LAES (Liquid Air Energy Storage) e di cui avevo già parlato oltre un anno fa in questo post e che oggi arriva alla consacrazione del mercato nei nuovi scenari energetici.

Ed è proprio la Gran Bretagna ad ospitare il suo primo impianto di stoccaggio criogenico su larga scala, precedendo molti altri paesi europei alla tecnologia dell’aria “liquida” come opzione d’energy storage, candidandosi così come paese modello delle nuove “criobatterie”. Si tratta infatti di un impianto dalla significativa taglia da 50 MW/250 MWh, che una volta a regime sarà il più grande di questo tipo in Europa, messo a punto dalla londinese Highview Power. Cosa non meno significativa è costituita dal fatto che il nuovo impianto è nato dalle ceneri di una vecchia centrale termoelettrica dismessa, nel nord dell’Inghilterra, dove grandi serbatoi di metallo completamente isolati conservano aria liquida in miscele di ossigeno e azoto raffreddate a meno 196°C attraverso l’uso di energia elettricità rinnovabile.

Il processo alla base dello stoccaggio criogenico si basa su una modalità molto semplice: in sostanza quando l’offerta di energia elettrica supera la domanda della rete, il surplus viene impiegato per comprimere e raffreddare aria fino alla sua liquefazioneL’aria liquida ottenuta è mantenuta in questo stato fino al momento del rialzo della domanda, quando viene ritrasformata in gas attraverso, per esempio, calore di scarto di bassa qualità, con il conseguente aumento di volume e di pressione che viene utilizzato per l’azionamento di una turbina elettrica.

Schematizzazione del processo
Sottosistemi del processo

Come dicevamo in premessa, il sistema è basato sulla collaudata tecnologia impiegata per la produzione di GNL, utilizzata in piena sicurezza in molti processi industriali dal momento che non richiede elementi o componenti particolarmente costosi per la produzione, consentendo sopratutto l’accumulo energetico per alcune settimane. Pur essendoci in corso altre sperimentazioni in questo ambito, il nuovo impianto di Highview Power si caratterizza per essere il primo collegato in rete, potendo aiutare alla stabilità la National Grid, gestendo quote di rinnovabili non programmabili come eolico e fotovoltaico ed incrementando la flessibilità della infrastruttura di rete elettrica. Inoltre, come spiega la stessa Highview Power, il sistema sarà in grado di fornire servizi ausiliari come la gestione della frequenza e dei vincoli di rete.

Sull’inaugurazione del nuovo impianto il commento di Javier Cavada, CEO di Highview Power, che precisa che “Sempre più centrali elettriche verranno ritirate dal mercato: noi stiamo offrendo una soluzione che può utilizzare la stessa infrastruttura energetica e le stesse connessioni di rete per dare nuova vita a questi siti. Secondo Cavada la criobatteria da 200 MW sarebbe in grado di immagazzinare energia elettrica ad un costo di 110 sterline per MWh, un prezzo che collocherebbe tale tecnologia di accumulo energetico tra le più economiche. A marzo scorso l’azienda ha resi noti i prossimi passaggi che prevedono un piano di collaborazione con lo specialista spagnolo TSK, con il quale realizzeranno sistemi di stoccaggio criogenico su scala gigawatt in Spagna, Medio Oriente e Sudafrica.

A seguire un interessante video di Highview Power, che ci introduce alla nuova tecnologia di accumulo criogenica

animazione del processo

Sauro Secci 

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Navi ambientalizzate con scrubber a ciclo aperto: uno “sporco trucco”

A più riprese dalle pagine di questo sito abbiamo denunciato gli abissali ritardi che sta registrando il comparto marittimo nell’ambito delle emissioni atmosferiche, ancora legate ad arcaici combustibili, sottoprodotti della raffinazione. E’ uscito al riguardo un interessante articolo sul sito dell’Independent, che rivela come le grandi aziende impegnate nel trasporto marittimo e le compagnie di navigazione stiano attivando significativi investimenti di miliardi di dollari per consentire alle proprie navi il rispetto dei nuovi e più stringenti standard imposti da IMO, l’Organizzazione Marittima Internazionale, nel rispetto dei regolamenti che entreranno in vigore dal 1° gennaio.

Come è noto agli addetti ai lavori, pur essendo già disponibili nuovi natanti con combustibili decisamente più puliti e sostenibili come il GNL (Gas Naturale Liquefatto), sulle navi esistenti si stanno installando dispositivi di abbattimenti degli inquinanti nei fumi come lo zolfo prima della loro emissione in atmosfera, che però, “aggirano” la nuova legislazione scaricando in mare il materiale raccolto nell’impianto di abbattimento, spostando il problema dalla matrice atmosferica a quella dell’inquinamento marino e quindi delle acque. Si tratta di dispositivi conosciuti anche come scrubber a circuito aperto, che catturano cioè lo zolfo estratto dai fumi dello scarico dei motori delle navi prima che entri nell’aria, ma con lo zolfo raccolto che non viene sequestrato e immagazzinato da qualche parte bensì espulso nella parte inferiore della nave, cioè l’acqua, incrementando così le concentrazioni degli inquinanti marini, i quali potrebbero avere effetti determinanti anche in termini di ulteriore acidificazione su tutti i complessi ecosistemi.

Secondo l’articolo di Indipendent, sarebbero già 3756 le navi equipaggiate con tale tipologia di dispositivi la DNV GL, uno dei più grandi certificatori marittimi al mondo. Di contro a una tale tipologia di sistemi esiste un dispositivo simile, denominato scrubber a circuito chiuso, il quale invece di espellere gli inquinanti nell’acqua, li trattiene immagazzinandoli in appositi serbatoi affinché possono essere avviati ad appositi impianti di smaltimento una volta giunti in porto, con un ovvio costo di smaltimento per i gestori delle navi. Purtroppo però sarebbero solo poche decine le navi che avrebbero installato la tipologia di scrubber a circuito chiuso, per gli evidenti maggiori costi legati, come dicevamo, allo smaltimento. 

In particolare quindi, le navi che utilizzeranno lo scrubber incriminato “a circuito aperto” saranno capaci di emettere 45 tonnellate di acqua di lavaggio contaminata, contenente anche agenti cancerogeni come IPA (idrocarburi policiclici aromatici) e metalli pesanti, per ogni tonnellata di combustibile bruciato.

Link articolo Indipendent 

Sauro Secci 

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Teleriscaldamento in Italia: avanti a piccoli passi con il 2% della domanda

Una delle forme più interessanti di gestione della energia termica condivisa anche per i costi di gestione davvero convenienti che offre al cliente finale è indubbiamente quella del teleriscaldamento, che oltre a togliere dalle mura domestiche inquilini scomodi come caldaie o dispositivi in pressione, risulta progressivamente sempre più legata alle fonti rinnovabili come le biomasse legnose e la geotermia a bassa entalpia.

A fare il punto sulla diffusione di questa forma di risposta alle esigenze termiche degli edifici, il primo Rapporto 2019 del GSE che rileva 300 impianti diffusi in 240 territori comunali, con una massiccia concentrazione nel Nord Italia, con una estensione complessiva delle reti di 4.600 km.

La prima edizione del rapporto GSE, dal titolo “Teleriscaldamento e teleraffrescamento in Italia”, scaricabile in calce al post, il GSE fa una analisi puntuale sulle caratteristiche e sulla diffusione dei sistemi di teleriscaldamento (TLR) e teleraffrescamento in esercizio sull’intero territorio nazionale alla fine del 2017, con approfondimenti dedicati sia alle peculiarità delle diverse tipologie impiantistiche e di rete sia alle volumetrie servite.

Si tratta di circa 300 sistemi di TLR in esercizio in Italia nell’ambito di 240 territori comunali (prevalentemente collocati nelle regioni settentrionali) con una estensione complessiva delle reti di 4.600 km ed oltre 9 GW di potenza installata.

Fonte: Primo Rapporto GSE  – “Teleriscaldamento e teleraffrescamento in Italia”

Prendendo in considerazione il solo settore residenziale, il TLR è in grado di soddisfare oggi circa il 2% della domanda complessiva di prodotti energetici per riscaldamento e per la produzione di acqua calda sanitaria del Italia.

Nonostante la maggior parte degli impianti a servizio delle reti è alimentata prevalentemente a metano, fonte che potrà comunque progressivamente essere sostenuta dalla crescente produzione di biometano per l’84% delle realtà, il restante 16% delle stesse è alimentato da rinnovabili, in particolare biomasse e geotermia e rifiuti.

L’incidenza degli impianti alimentati da rinnovabili decresce gradualmente alla crescita della taglia degli impianti. Nel 2017 l’energia complessivamente immessa nelle reti è stata pari a circa 11,3 TWh termici (circa 970 ktep), di cui il 64% prodotto da gas naturale, il 25% da fonti rinnovabili, il restante 11% dalle altre fonti fossili.

Una dinamica interessante da rilevare è costituita dal fenomeno che ad affiancare le ancora prevalenti reti di teleriscaldamento, si stanno progressivamente affiancando le reti di teleraffrescamento, sempre associate a quelle di teleriscaldamento. Si tratta di sistemi di erogazione del fresco effettuata attraverso una rete di distribuzione dedicata o ad acqua refrigerata oppure attraverso gruppi ad assorbimento, installati presso le utenze e alimentati dalla rete di teleriscaldamento. Sono stati censite 32 reti di teleraffrescamento, per un’estensione di 33,6 km ed una volumetria raffrescata di 8,9 milioni di metri cubi. Si tratta di sistemi concentrati quasi esclusivamente in Lombardia ed Emilia Romagna.

Un altra importante rilevazione è costituita dal fatto che il 73% dei sistemi di teleriscaldamento e il 69% dei sistemi di teleraffrescamento in esercizio in Italia sono efficienti ai sensi della definizione stabilita dall’articolo 2 del Dlgs 102/2014, il quale ha recepito la Direttiva 2012/27/CE. In particolare, per essere classificato come efficiente, il sistema di teleriscaldamento deve utilizzare, in alternativa, almeno:

  • il 50% di energia derivante da fonti rinnovabili;
  • il 50% di calore di scarto;
  • il 75% di calore cogenerato;
  • il 50% di una combinazione delle precedenti.

Scarica il Primo Rapporto “Teleriscaldamento e teleraffrescamento in Italia” (sito GSE)

Sauro Secci   

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